giovedì 16 dicembre 2010

Natale - Yule - Prima parte


Mentre l’anno volge al termine, nelle terre dell’emisfero boreale a clima temperato le notti si allungano e le ore di luce sono sempre più brevi, fino al giorno del Solstizio invernale, il 21 dicembre. Solstizio, dal latino “sol stat”, “il sole si ferma”. E difatti il sole per circa tre giorni sorge sempre nello stesso punto. Il respiro della natura è sospeso, nell’attesa di una trasformazione, e il tempo stesso pare fermarsi. È uno dei momenti di passaggio dell’anno, forse il più drammatico e paradossale: l’oscurità regna sovrana, ma nel momento del suo trionfo cede alla luce che, lentamente, inizia a prevalere sulle brume invernali. Dopo il Solstizio, la notte più lunga dell’anno, le giornate ricominciano poco alla volta ad allungarsi. Come tutti i momenti di passaggio, il Solstizio d’Inverno è un periodo carico di valenze simboliche e magiche, dominato da una costellazione di miti e di simboli, echi ancestrali di un passato lontanissimo e dei quali abbiamo ormai perso il significato originario. E tuttavia, nelle moderne celebrazioni natalizie e di fine anno è ancora possibile discernere i simboli di tradizioni primordiali sotto la loro attuale veste, cristiana o consumistica che sia.
Cerchiamo per un attimo di immaginare come viveva l’antica umanità questo periodo dell’anno, in epoche prive della tecnologia moderna e nelle quali buio e gelo erano sinonimi di fame e morte. Dalla Siberia alle Isole Britanniche, passando per l’Europa Centrale e il Mediterraneo, era tutto un fiorire di riti e cosmogonie che celebravano le nozze fatali della notte più lunga col giorno più breve. Due temi principali si intrecciavano e si sovrapponevano, come i temi musicali di una grande sinfonia. Uno era la morte del Vecchio Sole e la nascita del Sole Bambino, l’altro era il tema vegetale che narrava la sconfitta del Dio Agrifoglio, Re dell’Anno Calante, ad opera del Dio Quercia, Re dell’Anno Crescente. Un terzo tema, forse meno antico e nato con le prime civiltà agrarie, celebrava sullo sfondo la nascita-germinazione di un Dio del Grano…
Se il sole è un dio, il diminuire del calore e della sua luce è visto come segno di vecchiaia e declino. Occorre cacciare l’oscurità prima che il sole scompaia per sempre. Le genti dell’antichità, che si consideravano parte del grande cerchio della vita, ritenevano che ogni loro azione, anche la più piccola, potesse influenzare i grandi cicli del cosmo. Così si celebravano riti per assicurare la rigenerazione del sole e si accendevano falò per sostenerne la forza e incoraggiarne, tramite la cosiddetta “magia simpatica” la rinascita e la ripresa della sua marcia trionfale. L’inverno era pericoloso, non solo per il freddo e la scarsità di cibo, ma anche perché vagavano sulla Terra spiriti di defunti, vampiri e licantropi, entrati nel varco che si era aperto alle calende di novembre, Samhain (l’attuale Ognissanti). In un anno di tredici mesi lunari e di ventotto giorni ciascuno, resta inevitabilmente fuori un giorno, il giorno senza nome che rappresenta una frattura nel ciclo del tempo, il ritorno del Caos primordiale. Il Solstizio è insieme festa di morte, trasformazione e rinascita. Il Re Oscuro, il Vecchio Sole, muore e si trasforma nel Sole Bambino che rinasce dall’utero della Dea: all’alba la Grande Madre Terra dà alla luce il Sole Dio. La Dea è la vita dentro la morte, perché anche se ora è regina del gelo e dell’oscurità, mette al mondo il Figlio della Promessa, Il Sole suo amante che la rifeconderà riportando calore e luce al suo regno. Anche se i più freddi giorni dell’inverno ancora devono venire, sappiamo che con la rinascita del sole la primavera ritornerà.
I Celti consideravano il sole che si levava fino alla vigilia del Solstizio un sole-ombra, mentre quello vero era prigioniero di Arawn, re del Mondo-di-Sotto. Questo vero sole rinasceva dal grembo di Ceridwen, la vecchia Dea-Strega dell’inverno. Nella tradizione druidica moderna il solstizio prende il nome di Alban Arthuan, “Luce di Artù”, dove il Dio Sole rinasce in questo giorno come il re Artù che dorme in una grotta segreta nelle montagne gallesi si risveglierà un giorno per portare un’epoca di pace e di prosperità.
I grandi monumenti megalitici della preistoria sono testimonianze mute ma possenti di questa tradizione. A Stonehenge, il cerchio di pietre eretto in Inghilterra tra il 3100 e il 1700 a.C. il sole del Solstizio sorge all’alba attraverso il trilite di Sud-Est e proprio sopra la Altar Stone, la Pietra Altare. I costruttori di dolmen e menhir possedevano una notevole sapienza astronomica e appare evidente il loro interesse per il solstizio invernale e per la posizione della luna in questo periodo: si è già visto come il Nuovo Sole era inseparabilmente legato alla Vecchia Strega lunare,  regina dell’inverno. Forse i monumenti preistorici erano teatro di danze rituali in cerchio che, combinate con le energie delle grandi pietre, avevano lo scopo di rigenerare i poteri della vita. A Newgrange, in Irlanda, il simbolismo era più spettacolare: nell’enorme tumulo eretto verso il 3200 a.C., un raggio del sole che sorge all’alba del solstizio percorre esattamente un lungo e strettissimo corridoio per illuminare la piccola cella interna. Molto più tardi, i Celti narreranno che Lugh, dio della luce, era stato sepolto a Newgrange, tomba e utero della sua rinascita.
Sono numerose le tradizioni che vedono nascere un dio del sole o della luce in una caverna. Il sole emerge dall’utero-caverna della Dea o, per usare un altro linguaggio, il buio è l’oscurità alchemica in cui si forma la splendente pietra filosofale.  In una grotta, simbolo del cosmo stesso, nascono Dioniso, Hermes, Zeus. Ad Atene il rituale del Solstizio erano le Lenee, la festa delle Donne Selvagge, in cui si celebravano ad un tempo la morte e la rinascita di Dioniso. Grotte addobbate di fiori commemoravano la nascita del dio, sacrificato in precedenza come capretto dai Titani. I Cretesi uccidevano e mangiavano un toro quale sostituto di Dioniso. E come toro veniva adorato e sacrificato un altro dio solstiziale, il persiano Mithra, che nasceva il 25 dicembre in una grotta, così come grotte erano i suoi santuari di iniziazioni. In Egitto era Iside a circumambulare sette volte, sotto forma di vacca aurea, l’altare di Osiride per cercare le parti del suo cadavere smembrato, raffigurando la ricerca del sole in inverno da parte della Dea. Le case erano decorate con lampade a olio che ardevano tutta la notte. A mezzanotte i sacerdoti uscivano dal santuario gridando: “La Vergine ha partorito! La luce è crescente!” e mostrando un’immagine del bambino ai fedeli. La sepoltura di Osiride, il Vecchio Sole assassinato dal fratello Seth, il dio dalla testa di asino, avveniva il 21 dicembre. Il 23 Iside dava alla luce il figlio Horus, il Nuovo Sole e al tempo stesso il Signore dei raccolti. Horus e Osiride rappresentano contemporaneamente gli aspetti solari e vegetali della divinità, fondendo nel suo mito i tre temi mitici del Solstizio e insegnandoci che morte e vita sono inseparabili: ogni nuova nascita ci porta più vicini alla morte. Il Vecchio Dio deve venire a patti con le implicazioni di questa verità perché solo così può rinascere attraverso il figlio. Il Natale è la versione cristiana della rinascita del sole, fissato secondo la tradizione al 25 dicembre dal papa Giulio (337-352 d.C.) al duplice scopo di celebrare Gesù Cristo come “Sole di Giustizia” e creare una celebrazione alternativa alla più popolare festa pagana dell’epoca. Il 25 dicembre infatti, quando il nuovo sole è già salito percettibilmente sull’orizzonte, era a Roma il Dies Natalis Solis Invicti, la festa in onore del Sole Invincibile istituita dall’Imperatore Aureliano per celebrare il sole quale manifestazione della divinità che governa il cosmo. La nuova religione cristiana assorbì gran parte dei significati di questa festa, così come, più tardi, assorbì le usanze legate alla festività nord-europea di Yule (dal norvegese iul, “ruota”, ad indicare la ruota o ciclo dell’anno).
A Roma vi era una festa molto più antica di quella del Sole Invincibile: fra il 17 e il 23 dicembre si celebravano i Saturnali. In ogni città e villaggio veniva nominato un Rex Saturnaliorum che regnava per una settimana fra banchetti, giochi e orge, mentre gli schiavi prendevano il posto dei padroni e viceversa. La libertà e il caos non erano altro che il ricordo della mitica Età dell’Oro, un’epoca felice di abbondanza e uguaglianza in cui aveva regnato Saturno. Solo durante i Saturnali veniva ammesso il gioco d’azzardo, non uno semplice svago ma un atto rituale oracolare, teso ad interpretare la volontà degli dei. La falce di Saturno era in realtà un lituus, il bastone ricurvo usato dagli auguri per vaticinare il futuro. E i dadi dell’antica Roma erano forse il residuo di un antichissimo gioco oracolare: “sortes” erano in latino i dadi, nome che rimanda alla lettura dei destini. La moderna tombola ha ereditato questo valore, con i suoi significati scherzosi attribuiti ai 90 numeri, mentre ancor oggi fioriscono le vecchie usanze divinatorie, come quella secondo cui è possibile trarre pronostici sui 12 mesi dell’anno a venire osservando i 12 giorni che separano il Natale dall’Epifania. Tutti i momenti critici dell’anno sono fratture tra i mondi umani e quelli ultraumani, sono tempi fuori dal tempo, in cui passato, presente e futuro si mescolano, e di conseguenza momenti propizi per le arti divinatorie. Gli antichi Greci chiamavano il Solstizio invernale “porta degli dei”, considerandolo il confine tra il nostro mondo e una dimensione non-spaziale e non-temporale. Per questa porta si accede ad uno stato super-individuale, divino, il regno degli dei.
Un’altra tradizione tramandata dai Saturnali è quella dei doni: in epoca imperiale a Roma ci si scambiava lumi accesi, simbolo della luce crescente. Alla fine dei Saturnali il Rex Saturnaliorum era ucciso simbolicamente (o forse realmente in epoche remote), e Saturno nuovamente legato, perché la frattura spazio-temporale si era richiusa e l’Età dell’Oro poteva essere instaurata definitivamente solo alla fine di un intero ciclo cosmico.
Saturno veniva imprigionato da Giove: questo ricorda chiaramente il tema delle due divinità che si combattono, la metà crescente e quella calante dell’anno o, come appare in certi miti di origine celtica, il Re della Quercia e il Re dell’Agrifoglio.

Da Feste pagane di Roberto Fattore, Macro Edizioni

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