lunedì 10 gennaio 2011

La donatrice invisibile


Se riandiamo con la memoria alla nostra infanzia subito riaffiora alla mente il pensiero della misteriosa figura che arriva di notte presso il focolare, e non può essere vista. Una befanata toscana recita:

La Befana abbian trovata
per la strada mezza morta
con le fusa nella sporta
da una parte smanicata.
Ragazzetti a letto andate,
questa è l’ora di dormire
La Befana vuol venire
e non vuole che la vediate
.
1)

1) Befanate del contado toscano

Questa proibizione di vedere la Befana è in rapporto con la sua invisibilità. Essa infatti è invisibile, non solo, ma l‘incauto che si arrischiasse di vederla incorrerebbe in gravi pericoli. L’immagine non vista, ma presente, della Befana si può ricollegare alle concezioni sugli spiriti invisibili degli antenati; l’invisibile protettore della famiglia si associa nella coscienza degli uomini con la figura dell’antenato. Nel rito funebre osserviamo una compresenza di due momenti: onorare il defunto e temerne al tempo stesso la vista. Il rito di non vedere il morto si può manifestare sia coprendosi alla sua vista, sia coprendo il defunto o velando il volto del defunto, affinché non sia visto. Gli esseri invisibili appartengono al mondo degli spiriti, sono figure di antenati della stirpe, oppure, come avviene nei miti, si tratta di uomini che si trovano a soggiornare per qualche tempo nel regno dell’oltretomba, dove di solito trovano aiutanti magici ed oggetti fatati che permettono loro di portare a termine agevolmente l’impresa. Così nelle fiabe si sono conservati i motivi del mantello o del cappello che indossati rendono invisibili.
L’atteggiamento delle culture tradizionali è caratterizzato da una fede nella presenza e nell’azione di forze invisibili ed inaccessibili ai sensi, le quali non sono meno reali di quelle visibili. Di qui la mancanza di distinzione nello stesso oggetto di qualità tangibili o nascoste, segno evidente di un più accentuato senso mistico.
Nella Grecia omerica era diffusa l’usanza di coprire con un cappuccio la testa del defunto, poiché si credeva, analogamente ai Celti,  che in essa fosse la sede dell’anima. Avvolgere la testa significava rivestire l’anima di un nuovo fato, ridarle nuova vita, e al tempo stesso, coprendo il volto del defunto lo si rendeva invisibile. Questo spiega perché nelle fiabe indossare un cappuccio o un mantello rende invisibili.
Nel mondo dei cacciatori paleolitici rivestire la pelle dell’animale sacro significava identificarsi con esso e quindi con l’antenato, il cui spirito era presente nell’animale. Di qui potrebbero essersi sviluppate le figure mascherate con pelli di animali, o imbrattate di fuliggine, da porre in relazione sia con gli spiriti degli avi defunti, che con le società di iniziati che tali spiriti impersonavano.
I personaggi mascherati che compaiono in aspetto spaventevole nelle case portando con sé dei sacchi pieni di cenere e di fuliggine, con la quale cospargono gli astanti, soprattutto i bambini, non sono altro che una reminiscenza di questi uomini mascherati impersonanti le anime dei defunti, che ritornano tumultuose a coinvolgere i vivi. A Trento il wetscho e la wetscha, ricoperti  di fuliggine, tentano di annerire le donne che incontrano nel loro cammino. I ragazzi girano per le vie indossando pelli di animali, col viso nascosto da maschere di legno e con cinture di pelle e di campanacci da bestiame intorno alla vita. Ogni ragazzo regge un bastone al quale è legato un sacco pieno di cenere, che viene poi rovesciato sulla testa delle ragazze.
Alle maschere che si presentano nelle case si usa offrire doni. Nei giorni precedenti il mercoledi delle ceneri, nelle Alpi orientali gli Heumüterli (da heu, “fieno” e mütter, mamma) girano da una casa all’altra del paese in vesti femminili, con braccia e gambe avvolte nella paglia e i volti anneriti. Essi impiastricciano di nerofumo chiunque incontrino sul  loro cammino. Queste figure presentano una straordinaria similitudine con i Mamutones della Sardegna, uomini mascherati con abiti femminili, con maschere scure sul volto, fazzoletti legati sulla testa, ricoperti di pelle e con tanti campanacci appesi alle cinture, che essi fanno suonare saltando in modo cadenzato, accompagnati da questi ritmi ancestrali.
Una costante di questi giochi carnevaleschi è l’azione di spalmarsi di fuliggine e cospargerne gli astanti, senza dubbio perché la cenere è portatrice di virtù benefiche e fertilizzanti; ma qui occorre tener presente un altro significato insito nell’imbrattamento. Nelle fiabe l’azione di imbrattarsi il viso e le mani di fuliggine ha lo scopo di rendere il protagonista irriconoscibile. Questo motivo fiabesco è senza dubbio connesso al mascheramento dei candidati ai riti di iniziazione.
Al neofita venivano spalmati gli occhi con argilla, in modo che egli li tenesse chiusi per qualche tempo. L’atto di dipingersi il corpo, o di ricoprirlo con materiali eterogenei, è in relazione con l’idea di invisibilità, con i concetti di mimesi e trasformazione, e quindi con la rappresentazione di un soggiorno temporaneo nel regno d’oltretomba. Il giovane iniziando veniva considerato alla stregua di un defunto: alla sua vista i familiari si cospargevano di fango e cenere, gesti tipici del lutto primitivo. L’azione di coprirsi il viso o tingerlo è quindi da riferire alla condizione di temporanea “invisibilità” dei novizi, giovani candidati ai riti di iniziazione, corrispondente all’invisibilità degli avi defunti, che essi in tal modo impersonavano.
Se torniamo alla filastrocca toscana sulla Befana, osserviamo che ai ragazzi viene imposto il dovere di dormire, poiché non devono vedere la Befana quando questa arriverà. Tuttavia nell’etnografia appare più frequentemente attestato il divieto del sonno.
L’esigenza di vegliare trova giustificazione nel timore degli spiriti mentre l’imposizione del sonno sembra indicare un’assenza di questo timore, una confidenza nella benevola figura di uno spirito famigliare. Se tuttavia ci soffermiamo su questa seconda indicazione, osserviamo che essa verosimilmente risponde alla necessità di evitare di rimanere in presenza dello spirito. Quest’ultimo infatti è “invisibile”, nel senso che non deve e non può essere visto; un essere vivente non può trovarsi impunemente alla presenza di uno spirito.
Quando la Befana arriva i bambini dormono; ma una volta lo svolgimento del rito aveva l’effetto di suscitare nei ragazzi il terrore alla vista degli spiriti. Si evocavano le oscure presenze degli avi attraverso le maschere, accrescendo l’orrore dei giovani novizi, per poi superarlo una volta giunti alla scoperta della “verità” che consisteva appunto nel constatare che le spaventose maschere, rappresentanti gli spiriti degli antenati, altri non erano che figuranti, uomini iniziati della tribù, ricoperti di pelli animali, con il corpo dipinto, il viso imbrattato di fuliggine, oppure di bianco.
Spesso a capo delle maschere c’era la figura di una vecchia donna, sempre interpretata da un uomo, che indossava grembiuli e vesti femminili, rappresentando così la grande antenata della tribù. È da questa figura che si sarebbe sviluppata in seguito la Befana, non tanto come noi la conosciamo nelle tradizioni folcloriche italiane o europee, ma soprattutto come si è conservata in alcune aree geografiche che riflettono questo nucleo primordiale. Il senso originario della figura della Befana va ricercato anche in questa direzione; il suo compito particolare era quello di presiedere alla formazione del bambino, di seguirne le fasi essenziali della vita, fino al momento di entrare a far parte della società adulta.
La figura della Befana presenta una certa ambivalenza. Essa è solitamente la benevola dispensatrice di regali, ma talvolta può assumere aspetti inquietanti. Il carattere ambivalente è una costante delle divinità ctonie, di Persefone, come della germanica Holda, e di Kali dal doppio nome: “la terribile e la benevolente”. Le tradizioni popolari hanno conservato tracce di questa doppia percezione.
Tra le funzioni della Befana nella tradizione folcloristica europea dobbiamo annoverare anche quella di rapitrice. La vigilia di Epifania tre anziane donne travestite da uomini, con un sacco nero sul capo andavano in giro a spaventare i bambini.
Se si volesse ricercare la ragione di tali minacce tentando di interpretarle alla lettera, e riconducendole al clima di severità pedagogica tipico delle epoche trascorse, si incorrerebbe in un errore, in quanto si tratta evidentemente di un gioco drammatico dalle regole ben precise, nel quale gli attori ricoprono ruoli fissi e codificati da secoli. Lo scenario ci riporta alla fase iniziale del rito, quando i giovani neofiti venivano rapiti sotto gli occhi di tutti da uomini mascherati o da animali posticci, e condotti via lontano dal villaggio, nella foresta o in un altro luogo sacro, quale un monte o una grotta. In alcuni casi uomini vestiti da vecchie, indossando dei grembiuli, venivano a rapire gli iniziandi e a trascinarli via in luoghi segreti. Questi uomini impersonavano le “progenitrici” mitiche, nella loro funzione di rapitrici. A capo di tutte le maschere era una figura femminile, che veniva definita la “madre” e che soltanto gli iniziati potevano conoscere.
È interessante osservare che nel modenese il termine borda, con cui è nota la Befana, indica anche “maschera”, “spauracchio, fantasma”. Sappiamo che la Befana era originariamente una maschera. Non pare superfluo ricordare che il nome della dea infera per eccellenza, Proserpina, è connesso etimologicamente al termine arcaico pròsopon, “maschera”. In Germania la notte di Epifania veniva detta Perchtennacht, o Bergnacht, “notte dei Berchten”, ossia la notte dell’apparizione sulla Terra degli spiriti che vagano guidati dalla loro regina Berchta. Lo Schembert è infatti una maschera che spaventa i bambini. Berchta, il cui nome significa “luminosa”, “splendente” (come ho scritto in un altro post), dal sanscrito brhaj, latino fulgeo, è un personaggio del tutto affine alla Befana. L’assimilazione della maschera agli spiriti degli antenati spiegherebbe anche i significati di spettro, spauracchio e così via, collegati alla figura della Befana, come ad altre analoghe.

Da: L’incanto e l’arcano: per una antropologia della Befana, di Claudia Manciocco e Luigi Manciocco

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