sabato 21 gennaio 2012

Le Owens


Per più di duecento anni le donne di casa Owens sono state incolpate di tutto quello che andava storto in città. Se arrivava una primavera piovosa, se il latte delle mucche al pascolo era striato di sangue, se una colica uccideva un puledro o nasceva un bambino con una voglia rossa stampata sulla guancia, erano tutti convinti che fossero state quelle donne di Magnolia Street a forzare, almeno in parte, la mano del destino. Non aveva importanza quale fosse il problema, il fulmine, le cavallette o la morte per annegamento. Non aveva importanza che la situazione avesse una spiegazione logica o scientifica, o che fosse imputabile alla semplice malasorte. Bastavano un guaio lontanamente in vista o una minima circostanza sfortunata perché subito tutti puntassero il dito e sapessero chi incolpare. In men che non si dica si erano già convinti che passare a piedi davanti a casa Owens con il buio non fosse sicuro, e soltanto i vicini più avventati osavano sbirciare oltre la cancellata di ferro battuto nero che circondava il giardino come un serpente.
Dentro casa non c’erano né orologi né specchi, ma tre serrature su ciascuna porta. Sotto le assi del pavimento e nei muri abitavano topi, e spesso se ne trovavano anche nel cassettone, dove rosicchiavano le tovaglie ricamate e gli orli di pizzo delle tovagliette all’americana in puro lino.
Per i sedili vicino alle finestre e le mensole dei camini erano stati usati quindici legni diversi, tra i quali la quercia dorata, l’argenteo frassino e una qualità di ciliegio particolarmente fragrante che rilasciava un profumo di frutti maturi anche nel cuore dell’inverno, quando fuori gli altri alberi non erano che scheletri neri senza foglie. Per quanto polveroso fosse il resto della casa, le parti in legno non avevano mai bisogno di essere lucidate. Se socchiudevi gli occhi, potevi vedere il tuo riflesso nel rivestimento di assi nella sala da pranzo e persino nel corrimano al quale ti aggrappavi nel precipitarti giù per le scale. Non c’era una sola stanza in cui non fosse sempre buio, anche a mezzogiorno, e nella quale non ci fosse anche un bel fresco anche nella canicola di luglio. Chiunque avesse osato arrivare fino al portico, dove cresceva selvatica l’edera, avrebbe potuto cercare di guardare attraverso le finestre per ore senza vedere niente. Lo stesso valeva per chi guardava fuori: i vetri verdi delle finestre erano così vecchi e così spessi che le cose dall’altra parte sembravano viste in sogno, compresi il cielo e gli alberi.

Le donne Owens ignoravano le convenzioni sociali, erano testarde e volitive e ci tenevano a essere tali. Le cugine che avevano preso marito avevano sempre insistito per conservare il cognome di famiglia e anche le loro figlie si chiamavano Owens. La madre di Gillian e Sally, Regina, era stata un elemento particolarmente difficile da controllare. Quando ripensavano a Regina che camminava sulla balaustra del portico con solo le calze ai piedi e le braccia in fuori per mantenere l’equilibrio, nelle sere in cui aveva bevuto un po’ troppo whisky, le zie dovevano ricacciare indietro le lacrime. Forse Regina era una sventata, ma sapeva divertirsi, una capacità di cui le donne Owens andavano fiere. Gillian aveva ereditato la vena selvaggia di sua madre, ma Sally non avrebbe saputo riconoscere un divertimento neppure se l’avesse aggredita e morsicata.

Le zie tenevano ancora sui loro cassettoni le fotografie dei giovani che un tempo avevano amato, due fratelli troppo orgogliosi per cercare riparo durante un temporale che aveva interrotto il loro picnic. Erano stati colpiti in pieno dal fulmine nel parco cittadino, dov’erano poi stati sepolti sotto una pietra tonda e liscia sulla quale all’alba e al crepuscolo si radunavano a tubare le zenaidure. Ogni mese d’agosto il fulmine colpiva ancora quello stesso punto, e ogni volta che comparivano cupe nubi temporalesche gli innamorati si sfidavano ad attraversare di corsa il parco. I fidanzati di Gillian erano gli unici abbastanza malati d’amore da rischiare di essere colpiti e due di loro si erano ritrovai in ospedale dopo le loro corse nel parco, con i capelli ancora ritti in testa e gli occhi destinati a rimanere spalancati fino alla fine dei loro giorni, anche durante il sonno.

Maria Owens era arrivata nel Massachusetts con solo una piccola borsa di effetti personali, la sua bambina appena nata e un pacchetto di diamanti cucito nell’orlo del vestito. Maria era giovane e carina, ma vestiva solo di nero e non aveva marito. Nonostante questo, era abbastanza ricca da poter pagare i dodici falegnami che avevano costruito la casa di Magnolia Street, e così sicura di sé e di quello che voleva da arrivare persino a dar loro consigli su questioni del tipo quale legno usare per la mensola del camino in sala da pranzo e quante finestre ci volevano per consentire una perfetta visuale del giardino sul retro. La gente divenne sospettosa, e perché non avrebbe dovuto? La piccina di Maria Owens non piangeva mai, neppure quando veniva morsa da un ragno o pun
ta da un’ape. Il giardino di Maria non era mai infestato dai dermatteri o dai topi. Quando arrivava un uragano, tutte le case di Magnolia Street ne uscivano danneggiate tranne quella costruita dai dodici falegnami. Non volava via nessuna persiana e persino la biancheria dimenticata fuori ad asciugare rimaneva al suo posto: non andava perduto neppure un calzino.
Se Maria Owens decideva di rivolgerti la parola, ti guardava dritto negli occhi anche se eri più anziano o migliore di lei. Era nota per fare quello che voleva, senza fermarsi a considerare le possibili conseguenze. Uomini che non avrebbero dovuto innamorarsi di lei erano convinti che Maria si fosse accostata a loro nel bel mezzo della notte, accendendo i loro appetiti carnali. Le donne si scoprivano attratte da lei e non vedevano l’ora di confessarle i propri segreti all’ombra del portico, dove il glicine aveva già attecchito e cominciava ad avvinghiarsi alle ringhiere dipinte di nero.

Maria si assicurava sempre di avere addosso qualcosa di blu, anche quando ormai era una vecchia signora e non poteva più alzarsi dal letto. Il suo scialle era sempre blu come il paradiso e, quando sedeva sotto il portico sulla sedia a dondolo, era difficile stabilire dove finisse lei e dove cominciasse il cielo.
Fino al giorno della sua morte, Maria portò sempre lo zaffiro che le aveva regalato l’uomo di cui era stata innamorata, se non altro per ricordare a se stessa che cos’era importante e che cosa no. Per molto tempo dopo che se ne era andata, alcuni insistevano nel dire di aver visto una figura azzurra e glaciale nei campi, in piena notte, quando l’aria è fredda e immobile. Giuravano di averla vista camminare nei frutteti diretta a nord e che se stavi zitto zitto, se non muovevi neppure un capello, ma ti accucciavi su un ginocchio sotto i vecchi meli, il suo vestito ti sfiorava e da quel giorno in poi avresti avuto fortuna in tutto, e i tuoi figli dopo di te, e anche i loro figli.

Gillian è più attraente che mai, ma le donne Owens sono sempre state note per la loro bellezza, almeno quanto per le scelte avventate che compiono inevitabilmente in giovane età. Negli anni venti la cugina Jinx, i cui acquerelli si possono ammirare al Museum of Fine Arts, era troppo caparbia per dare ascolto a chiunque. Si ubriacò di champagne gelato, buttò le sue scarpette di raso sopra un alto muro di sassi e danzò sui vetri rotti fino all’alba, poi non camminò più. La più adorata delle prozie, Barbara Owens, sposò un uomo dal cranio spesso come quello di un mulo che si rifiutava di fare arrivare in casa l’elettricità o l’acqua corrente, sostenendo che fossero una moda passeggera. La cugina preferita, April Owens, aveva vissuto per dodici anni nel deserto Mojave, raccogliendo ragni in barattoli pieni di formaldeide.

L’estate in cui zia Jet compì sedici anni, due ragazzi della città si uccisero per lei. Uno si era legato alle caviglie delle spranghe di ferro e si era annegato in una cava, l’altro era rimasto ucciso sui binari fuori città dal treno delle 10.02 per Boston. Di tutte le donne Owens, Jet era la più bella e non se n’era mai neppure resa conto. Agli esseri umani preferiva di gran lunga i gatti, e rifiutava le offerte di tutti gli uomini che s’innamoravano di lei. L’unico che avesse mai ricambiato era quel ragazzo rimasto ucciso dal fulmine quando lui e suo fratello si erano lanciati attraverso il parco cittadino per provare quanto fossero impavidi e coraggiosi. A volte, di notte, Jet e Frances sentono le risate dei due ragazzi che corrono sotto la pioggia, poi inciampano nell’oscurità. Le loro voci sono ancora giovani e piene di speranza, proprio come nel momento in cui sono stati colpiti dal fulmine.

Il loro sapone nero è tanto benefico per la pelle femminile se lo si usa tutte le sere. Le saponette delle zie, avvolte in plastica trasparente, si trovano nei negozi di prodotti biologici di Cambridge e in diversi negozi specializzati lungo Newbury Street, e grazie alle saponette le zie si sono potute permettere non solo un nuovo tetto per la vecchia casa, ma anche una fossa ecologica a regola d’arte.

Da: Il giardino delle magie di Alice Hoffman

2 commenti:

  1. Stupendo, molto bello, devo comprarmi il libro. Perchè non lo recensisci ? Anche il fil è bello e la canzone che hai messo ti accomppagna dolcemente nella lettura. Brava

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  2. Una recensione? mah, ci potrei provare... sono nuova alle recensioni e ora il libro è in biblioteca, non l'ho sotto mano.
    E' molto difficile da trovare, non è più in commercio, per quello mi sono iscritta al consorzio delle biblioteche Nord Ovest di Milano, quando ho visto che ce l'avevano in catalogo :-)
    Il libro è diverso dal film nella trama, ma ha lo stesso fascino stregonesco, entrambi insegnano ad essere forti nella propria unicità

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