domenica 11 novembre 2012

Il primo folletto d’Italia: a Pavia nel Duecento



Anche in carne ed ossa, è difficile poter vedere direttamente un folletto; anzi, piuttosto permalosetto, se lo si scorge o, peggio, ci si burla di lui, allora scompare. Esili esserucci che possiedono le tecniche della magia avrebbero, infatti, una gran facilità a ridursi in dimensioni infinitesimali. Possono diventare un filo d’erba, una foglia d’albero, un sasso sulla strada, una palla di fuoco, e quindi passare dalle serrature delle porte. Possono assumere le sembianze di un animale, di un attrezzo da lavoro, di piccole luci. Quando sono antropomorfi, sono mezzi uomini. La dimensione che la tradizione attribuisce loro aiuta in questa ricerca dell’invisibilità: generalmente pochi centimetri e mai oltre, se non di poco, il mezzo metro.
Forse la più antica attestazione italiana comprovante l’esistenza di un’entità casalinga assimilabile al folletto risale al racconto duecentesco ambientato a Pavia. In un capitolo del Chronicon imaginis mundi intitolato De quodam miro quod venit in Papia (“Di quanto vedo che succede nella città di Pavia”) un frate della chiesa di San Domenico narrava che un certo spirito, chiamato Martinus, fece una volta la sua comparsa in città nella casa di un tale Anselmo de’ Boccoselli e lì rimase per ben tre anni. Dimostrava particolare attitudine al servizio, era gentile e particolarmente premuroso. Si prodigava come servitore, cuoceva le pietanze, apparecchiava la tavola, rifaceva il letto, badava ai cavalli, teneva persino la contabilità. Costituiva, quindi, una presenza gradita tanto che Anselmo ebbe fama di fortunato tra i suoi concittadini. Il padrone, tuttavia, non ottenne mai la possibilità di vederlo perché lo spirito agiva di nascosto; era possibile solo sentire la sua voce. Ad un tratto, alla scadenza dei tre anni, il folletto gli si rivolse con queste parole: “Signore, cercatevi da voi un servitore perché io non sto più presso di voi”; e così scomparve per sempre dalla casa.
Il racconto costituisce una sorta di adattamento di leggende già da tempo circolanti: se, infatti, non pare che sia mai esistita una famiglia Boccoselli sulle rive del Ticino, è vero che martinus era già considerato nel bagaglio popolare di Pavia come sinonimo di tali realtà domestiche. Non era quindi il nome proprio del folletto, ma un vezzeggiativo, una delle più antiche attestazioni in Italia con cui erano individuate certe creature sostanzialmente viste come diaboliche.
In ogni caso, nonostante la comparazione satanica, lo spiritello conservava intatto il significato di presenza attiva e positiva in relazione all’attività dell’uomo, per nulla maliziosa o dispettosa; anche se, nell’invisibilità e nel brusco scomparire di scena, svelava la sua natura intimamente ambigua.
Vedi anche http://damadiavalon.blogspot.it/2011/03/luomo-cervo-del-carnevale-di.html
dove Martino è sostanzialmente benefico ed è l’equivalente di Pulcinella, una maschera che ricorda, tra l’altro, un folletto o la magia per via del cappello a punta.
Martino, Martinello, altri diminutivi e vezzeggiativi sono tutti modi per indicare il diavolo senza evocarlo direttamente col nome proprio. Una forma di scaramanzia che ancora oggi condividiamo.
L’uso del diminutivo magisterulus, ad indicare la forma familiare del diavolo, è testimoniato nella prima metà del Quattrocento tra le credenze tedesche relative alle streghe con il significato di piccolo maestro. La versione italiana riporta Mestrello o Martinetto o ancora Marinello. “Martino suo moroso” era il demone personale di una strega del Canton Ticino processata nel Cinquecento.
Vari i passaggi attraverso cui lo spirito familiare, sostanzialmente benevolo, divenne spirito maligno, al pari di molti altri demoni, non proprio buoni, di cui pullulano le leggende medievali. Martino, in Italia e in Francia, era nome in genere attribuito ai caproni, poi, per estensione, caprone nel senso comune del termine e, quindi, appellativo per qualsiasi animale dotato di corna; da cui sarebbe transitato al diavolo che volentieri si trasformerebbe in forma di caprone. Altra strada che avrebbe portato all’associazione demonio/Martino sarebbe stata quella che, partendo da San Martino, come protettore dei mariti ingannati (frequentissimo era l’appellativo di “Martino” per designare… un cornuto), portò a collegare il marito ingannato con il consorte di una strega.
Una tra le “colpe” delle fattucchiere, infatti, sarebbe quella di “abbandono del tetto coniugale”. Di notte, in silenzio , si immaginavano le megere sguscianti silenziose dal talamo nuziale per recarsi al sabba dove si sarebbero abbandonate agli accoppiamenti illeciti con il demonio. In periodo di “caccia alle streghe”, a cavallo tra Quattrocento e Cinquecento, un rigido costume religioso tacciava dunque le poverette accusate di stregoneria, tra tanti fatti di indicibile scelleratezza (mangiare i bambini; copulare col demonio; abbandonarsi ai piaceri della carne; provocare la morte, risvegliare i turbini del cielo; danneggiare campi e raccolti ecc.), anche di uno dei più gravi reati perpetrati contro la morale e la società: disaggregare, letteralmente, il nucleo familiare.
(Da Il grande libro dei misteri della Lombardia risolti e irrisolti di Federico Crimi e Giulio M. Facchetti)

Martino, diavolo, caprone, corna, cornuti… mentre scrivo di folletti, di caproni o di entità denominati Martino, mi viene in mente che oggi è l’11 novembre, la Festa di San Martino!
La tradizione orale, che ormai va scomparendo, richiama spesso “proverbi e detti” (che hanno una consuetudine quasi universale), ricorda fatti, personaggi e leggende, che sono l’espressione di una cultura popolare, che si tramanda con difficoltà ma senza essere cancellata o rimossa dalla memoria. In questo giorno di novembre, in cui si festeggia San Martino, è rimasta l’usanza di assaggiare per la prima volta il vino novello, che può ubriacare, fare cioè scherzi del diavolo, perché fresco, frizzante e quindi ingannatore. Il mosto, già fermentato, ha perso ormai il fondo dolciastro dell’uva, assumendo sentore di vino, ma perché lo diventi veramente, anche nella sostanza, bisogna attendere i mesi di marzo o di aprile. Il proverbio si rifà direttamente al costume del popolino romano, che festeggia l’11 novembre con pranzi e libagioni, come accadeva per il martedì grasso, in quanto successivamente cominciava il periodo liturgico dell’Avvento che prevedeva penitenze, cioè stili di vita contenuti e morigerati. C’è un’altra versione della tradizione di Martino e dei cornuti che non ha a che fare con i caproni e deriva dalla leggenda, presente nella mitologia latino-romana più arcaica, degli amori adulterini di Marte (di cui Martino è il diminutivo), Dio della guerra, e Venere, Dea dell’amore, che sorpresi da Vulcano, Dio del fuoco e marito della Dea della bellezza, furono da lui stesso rinchiusi in una rete di ferro per mostrarli agli Dei e averli quindi testimoni del torto subito. Ma gli Dei dell’Olimpo lo sbeffeggiarono e lo derisero, così la delusione di Vulcano fu ancora più atroce; forse proprio in quella vicenda va collocata l’origine di “un detto” che dura da secoli: “cornuto e mazziato”

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